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Intervista a Simona Granchi Presidente diocesana dell'AC di Fiesole, articolo tratto da La Parola di Fiesole

Qual è l’esperienza religiosa? Quali luci e ombre incontrate nella comunità ecclesiale?
«Sono nata in una famiglia con mio padre convinto comunista anticlericale, impegnato da sempre nelle lotte sindacali a difesa di più fragili e mia madre con una forte sensibilità umana che la rendeva sempre disponibile a tutti. Quindi devo a loro la mia prima esperienza religiosa anche se non in senso stretto e convenzionale, perché mi hanno permesso di mettermi subito in relazione con l’altro. Ho vissuto, prima di sposarmi, nella piccola parrocchia di Vaggio in cui sono cresciuta con la dolcezza di Don Angelo Mantovani e con la premura, intelligenza e profondità di Don Dino Nuti che iniziò negli anni 80 l’esperienza di gruppo prima con una decina di preadolescenti e poi con un gruppo di giovani delle parrocchie di Vaggio e Cascia che è stata fondamentale nella mia formazione umana e spirituale. Questo cammino ha poi incrociato nell’adolescenza quello dell’Azione Cattolica in cui ho trovato fratelli laici che insieme ad Assistenti sacerdoti di alto profilo mi hanno fatto sperimentare l’appartenenza alla Chiesa come popolo di Dio, come comunità in cammino, come comunità in relazione e in continuo dialogo con il mondo. La bella Chiesa del Concilio quindi! L’Associazione mi ha fatto capire la centralità di Cristo nella mia vita e come sia necessario continuamente sognare, pensare progettare percorsi di formazione perché il volto dell’uomo che Cristo ci ha rivelato possa essere condiviso con la cultura, la filosofia, le religioni e anche con le scelte sociali e politiche di ogni tempo. In Azione Cattolica ho imparato che la comunità ecclesiale va amata non solo nelle sue luci, che sono tante, ma anche nelle sue ombre perché ne sono parte integrante. Il punto di forza della comunità è quella di essere appunto comunità che, seppur “sgarrupata”, oggi rimane l’ultimo baluardo culturale difronte alle forti spinte individualiste e disgregative. Purtroppo, siamo ancora lontani dall’essere comunità consapevoli della forza rivoluzionaria del Concilio Vaticano II, perché ancora troppo arroccate nella preservazione di piccole aree di potere».

Il Concilio Vaticano II definisce la Chiesa un popolo che in Cristo è chiamato ad essere il segno e lo strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità del genere umano (LG1): Le sembra che la Chiesa abbia svolto e oggi stia svolgendo questa sua missione? In cosa dovrebbe cambiare?
«Credo che anche la consapevolezza della Chiesa sulla sua missione e sulla sua presenza nel mondo sia in continua evoluzione con spinte in avanti e battute di arresto. Mi spiego meglio: la visione della Chiesa su se stessa che si snoda attraverso i suoi Concili e il suo Magistero è cambiata via via molto e forse dovrà ancora cambiare. Lo Spirito ha certo in serbo altre sorprese. Spesso però si registrano disallineamenti fra la base del clero, i laici e il Magistero della Chiesa. Per intenderci, la definizione espressa dal Concilio Vaticano II è ben lontana nella vita reale e concreta delle nostre comunità, in cui si percepisce piuttosto la Chiesa come un luogo in cui si svolgono attività, anche belle, si distribuiscono Sacramenti, si cura la sfera religiosa individuale e si aspetta che il parroco dica cosa ci sia da fare. A parte la provocatoria ed esagerata descrizione, davvero le nostre parrocchie sono un popolo, segno di unità con Dio e il genere umano? Davvero ci poniamo il problema di costruire ed essere comunità con tutti, per tutti e in tutti? Davvero ascoltiamo, pensiamo e progettiamo insieme la nostra comunità? Davvero tutti possono sentirsi parte viva nelle nostre parrocchie? Secondo me siamo ben lontani oggi da svolgere questa missione, anche se esistono tante eccezioni. Cosa fare? Non ho certo soluzioni, ma credo sia importante investire su due fronti: il primo, quello della formazione di cristiani maturi, consapevoli della propria storia e capaci di porsi in dialogo aperto con il mondo lasciandosi interpellare dalla novità. Il secondo è quello della carità: nell’accogliere il bisogno dell’altro ogni differenza si ricompone in unità e l’umanità si svela in quella nudità profonda che ci fa riconoscere fratelli di un unico genere».
Il tempo della pandemia ha messo in evidenza la costitutiva fragilità dell’esperienza umana e posto nuove domande sul senso della vita. Le pare che il Vangelo sia ancora oggi una Buona Notizia, una luce capace di illuminare il cammino della vita?
«Fra le tante questioni che la pandemia ci ha posto e ci pone ce ne sono due secondo me che creano molto disagio: quella della morte e quella della libertà individuale, perché entrambe rimandano a quella realtà che la nostra cultura cerca di negare o superare a tutti i costi e cioè la realtà del limite. La morte è il limite della vita terrena. Al di là non si vede, non si conosce, non si può controllare. Ci siamo accorti che la libertà individuale non esiste, perché anch’essa non dipende solo da noi. Siamo inseriti volenti o nolenti in una rete di relazioni da cui dipendiamo a livello locale e globale. Se nascondiamo il limite o ci illudiamo che non esista non potremo mai porci la domanda su cosa ci sia al di là di esso. Ma la pandemia invece ce lo ha mostrato con forza e chiarezza divenendo una opportunità da non perdere (spero). Perché il Vangelo difronte a tutto ciò può essere una Buona Novità per la nostra vita? Perché ci dice che oltre quel limite non c’è il vuoto ma c’è l’Altro, un Dio Amore che si rivela nell’uomo che ci sta accanto ed è disposto a tutto per te. Oltre quel limite ci sono fratelli, non nemici, c’è bellezza non paura, c’è eternità non fine. Oltre quel limite ci sei tu per l’altro che ti chiede di essere suo fratello. Credo che questa sia la Buona Notizia che ogni uomo desidera nel suo profondo».
A quali condizioni la comunità ecclesiale nel territorio può essere una casa accogliente per tutti?
«La difficile ripartenza della vita delle nostre parrocchie dopo il lockdown sta mettendo in evidenza quanto le nostre comunità non siano state capaci negli ultimi tempi di un’accoglienza reale. Mentre la vita fuori era in trasformazione, le nostre comunità si contorcevano e si ripiegavano su dinamiche interne di cui nessuno all’esterno né si accorgeva né tantomeno capiva. Abbiamo perso tempo prezioso in dibattiti su come organizzare eventi o su chi avesse più o meno diritto di usare gli spazi, su come distribuire piccoli pezzetti dell’azione pastorale tra i vari movimenti e gruppi intorno al campanile, cercando di tenere fuori alcune tematiche che potessero creare contrasti. Il popolo fuori invece si trovava difronte a sfide di senso come abbiamo detto, soprattutto stava perdendo il desiderio di senso e spesso non lo ha riscoperto nelle nostre parrocchie. È necessario ripartire dai bisogni profondi e non quelli contingenti, è necessario intercettarli, come ci esorta Papa Francesco e cercare di accoglierli non con la pretesa di risolverli ma con il desiderio di condividerli. Ripeto, secondo me le nostre comunità devono investire in formazione, affinché la Chiesa sia capace di porsi in dialogo con il mondo. Si fa presto a dire di uscire e di accogliere se siamo privi di strumenti. Inoltre, devono spendersi nella carità, non in chiave dispensatrice: ho fame, ti offro un panino, ma in chiave relazionale: ho fame, mangiamo insieme! Questo è il passaggio che le comunità dovrebbero fare per essere una rete di relazioni dalle maglie larghe perché tutti possano entrare, solide perché possa tutti sostenere».
L’eucarestia, la messa domenicale, è secondo il Concilio «fonte e culmine della vita cristiana» una occasione unica di incontro settimanale per milioni di persone. Perché secondo lei questo momento d’incontro col divino e fra le persone oggi è così poco valorizzato?
«Dobbiamo tenere conto del fatto che soprattutto nella fascia più giovane, ma non solo, sembra non esserci tutto questo bisogno di Dio. La pandemia sembra aver fatto constatare a molti di noi che andare alla Messa o no, ricorrere ai sacramenti o no, non cambiasse poi tanto nella nostra quotidianità e quindi nella nostra vita, ma che invece potessimo crearci, se proprio necessario, uno spazio spirituale su misura, senza bisogno di doverlo condividere con qualcuno. Inoltre, in una cultura in cui la relazione è sempre più ristretta, frammentata ed esclusiva, la proposta cristiana di una condivisione comunitaria della fede sembra incomprensibile. Eppure, è proprio quella la sua forza! Oltre a questo, abbiamo perso il senso della festa. della gioia semplice di ritrovarsi insieme per qualcosa di grande e riconosciuto da una comunità. Facciamo tante feste (troppe) e non siamo capaci di essere in festa. Questi due elementi sono a mio avviso i motivi principali di questa difficoltà. Cosa dovrebbero fare le nostre comunità? Anche in questo caso non ci sono risposte semplici. Certamente dovremo “rivedere” lo stile e la modalità di vivere le nostre celebrazioni Eucaristiche, che dovrebbero essere più calde, più dentro la vita delle persone. Il momento dell’Eucarestia dovrebbe essere il momento in cui ciascuno pone nelle mani del Signore la propria vita insieme a quella dei fratelli. Ma se non conosciamo chi ci sta accanto, o magari guardiamo l’altro con sospetto o indifferenza, come potremo mai avvertirci fratelli? Creiamo occasioni di incontro, creiamo relazioni umane, spogliamoci delle nostre certezze e affidiamoci, allora potremo vivere meglio e con gioia la nostra Eucarestia».
Secondo lei, di cosa hanno bisogno oggi le persone per vivere una vita serena ed in armonia con se stessi, con gli altri, con il creato?
Forse la mia risposta sarà banale, ma credo che dovremo concederci spazi di silenzio ed educarci a starci dentro. Dobbiamo ritornare ad insegnare ai ragazzi, ai giovani agli adulti a stare in silenzio e a sapere attendere. Non ci siamo riusciti neanche durante il lockdown e abbiamo perso un’occasione. Dal silenzio possono nascere parole nuove, nel silenzio possiamo decifrare i desideri più profondi del nostro cuore, nel silenzio possiamo ascoltare la voce dell’Altro, inteso come Dio, uomo creato. Dovremo, poi spogliarci delle troppe cose di cui ci siamo circondati, ci appesantiscono, ci fanno rincorrere emozioni che durano solo un momento e ci stimolano a provare sempre di più e di tutto consumando tempo prezioso. Le cose uccidono il desiderio, l’attesa, il senso di festa e soprattutto ci fanno ripiegare su noi stessi non facendoci più avere compassione, cioè partecipazione attiva e empatica della vita degli altri. Allora rimaniamo indifferenti alle grandi tragedie che si stanno consumando in tante parti della terra, non ci sentiamo chiamati in causa difronte allo scempio perpetrato al nostro creato. Allora nella povertà silenziosa potremo riscoprire armonia, serenità e il senso del nostro cammino. Il Natale ci dice proprio questo».