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"Nelle tue scarpe": questo il titolo della tre giorni giovani "itinerante", pensata come un'occasione di incontro con alcune delle comunità di migranti ospiti nel nostro territorio e come un momento di studio, per approfondire la conoscenza del tema "migrazione" di cui tanto si sente parlare ma su cui spesso si sa ben poco. Tre giorni per mettersi in gioco e riscoprire quelle che sono le motivazioni profonde che ci invitano ad accogliere.
Riportiamo la testimonianza di Giulia e Benedetta, due tra le partecipanti a questo ritiro.

L'equipe Giovani

“Genesi 18, 1-15”, così don Fabio Celli, la domenica mattina, ha iniziato la sua chiacchierata con noi. Passo per passo ci ha portato con lui nella follia di Dio, come lui stesso l'ha definita. Una follia chiamata accoglienza.
E noi siamo stati trascinati, ci siamo lasciati trascinare per tutti e tre i giorni. Una tre giorni bella, intensa e ricca di “incontri”. Incontri con persone (come Francesco Paletti, della Caritas di Pisa, e Romina degli “Anelli Mancanti”) che ogni giorno vivono il lato pratico dell'accoglienza (gestione degli alloggi, dei pasti) e dell'integrazione con la società. Ma, soprattutto, abbiamo incontrato i migranti, gli immigrati, i temuti stranieri. Li abbiamo conosciuti attraverso articoli, video e interviste raccolte da diverse fonti e, infine, siamo stati loro ospiti. Siamo stati, infatti, invitati a trascorrere una serata con due dei gruppi di migranti ospitati non molto lontano dalle nostre case. E' stata una cena non come le altre. Perché incontrare significa rompere un equilibrio, abbandonare la propria quiete e mettersi in cammino per l'altro.
Proprio come dice la Genesi: “Egli alzò gli occhi e vide che tre uomini stavano in piedi presso di lui. Appena li vide, corse loro incontro dall'ingresso della tenda e si prostrò fino a terra”. Ma è proprio in questo passo verso l'altro che sta la promessa di fecondità di Dio, la promessa di novità, di bellezza.
E io questa bellezza l'ho trovata quella sera, nello stare insieme, nel condividere un pasto e mettere nel piatto un po' della nostre vite. Io, 23enne studentessa, loro ragazzi come me, eppure ci separa un abisso di esperienze. Ci presentiamo, parliamo, raccontano: “Perché sei partito?” “Nel mio paese c'è la guerra civile da trenta anni!”, “Perché ci hai messo così tanto per arrivare?” “Sono stato due anni prigioniero in Libia”. Scappano da guerre che non sappiamo esistere, portano segni di torture e noi (Italiani) rispondiamo con l'indifferenza?
Come detto, “incontrare significa dover rompere l'equilibrio”, e di certo noi non possiamo tornare alle nostre vite come se niente fosse. Troppo spesso ci facciamo bastare quanto ci viene detto dai mezzi di informazione. Ci siamo così abituati alla crudeltà, alla violenza che cento migranti che muoiono nel canale di Sicilia sono diventati la normalità, ma così non deve essere, ci dobbiamo lasciare “disturbare”. Per questo abbiamo pensato a dei progetti concreti, perché tutto questo non rimanga bello, ma vago. Ma, soprattutto, torno da questa tre giorni con la consapevolezza che quando sentirò al telegiornale “cento migranti morti in mare”, penserò ad Ahmed, a Mamadou, a quei ragazzi di 18 anni che ho incontrato e conosciuto, ognuno di quei cento sarà un nome, una storia, non saranno solo numeri, saranno voci, sorrisi, sogni, vite.
Giulia Casini

Tre giorni per abbattere barriere e stereotipi, all'insegna dell'incontro. Tante occasioni per riflettere, confrontarsi e pregare insieme. Questo e tanto altro sono stati questi giorni a San Martino, nel sereno e tranquillo clima che, per quanto ho potuto vedere, contraddistingue un po' lo “stile AC”. È stato bello conoscere, anche se per poco, la realtà di 12 ragazzi nigeriani, profughi, ospitati dal seminario di Fiesole. Bello stare ad ascoltare dai seminaristi, la storia di una convivenza non facile ma che arricchisce chi la vive ogni giorno di più. Abbiamo potuto assaggiare un tipico piatto africano e constatare quanto sia difficile, per chi è abituato a sapori (e a tanti tratti culturali) così diversi dai nostri, apprezzare quello che per noi è all'ordine del giorno. Non poteva rimanere un'esperienza che si esaurisce in una serata, quindi, come vuole il già citato “stile AC”, ecco che nasce da tutti l'esigenza di prendersi a cuore questa realtà, ognuno secondo le sue possibilità, per non lasciare che, dopo tante parole, l'accoglienza rimanga una esperienza bella ma lontana. Ognuno di noi è chiamato all'accoglienza, ma, per farlo, è necessario avere chiaro cosa significhi veramente accogliere. Per capirlo meglio ci siamo affidati alla figura di Abramo (Gen 18,1-15) che, pur non conoscendo i suoi ospiti, si prostra davanti a loro perché riconosce in loro una possibile grandezza. Abramo si mette in relazione con il suo ospite, ponendosi nella condizione di chi ha tanto da ricevere dall'altro. Sa che la sua ospitalità sarà imperfetta ma non per questo la rimanda. Abramo conferisce il giusto valore anche alla dimensione dello spazio, della giusta distanza che spesso viene trascurata. Accogliere non significa rendere uguali a sé ma rispettare l'altro e costruire insieme il luogo della comunione sotto il segno della differenza, tenendo fermo che ognuno ha la propria storia, il proprio racconto.
Benedetta Del Bigo